| Rajiv mordicchiò la matita. Annuì. Forse qualcosa di buono c’era, ma non era la storia. Non quella che un Censore cercava per le Olimpiadi. Laggiù! non aveva stile: almeno una decina di avverbi da aggiungere, nessuna forma passiva… E l’ambientazione? Buon Brahama! La solita colonia disabitata con la solita astronave di soccorso. I personaggi, poi! Un sacco di dettagli appena accennati, e lui odiava le cose incomplete. Rajiv posò la matita sulla scrivania e raccolse i fogli sparsi. Soppesò il plico e lo gettò sul piano in noce. Ancora nessun elaborato l’aveva convinto, eppure lui sapeva che dai cassetti della sua scrivania, un giorno, sarebbe sbucata la storia. E dopo cinque tentativi falliti, avrebbero vinto le Olimpiadi. E lui avrebbe terminato il suo lavoro. Annuì, spense la lampada e la penombra inghiottì l’immensa libreria nella parete opposta. Stiracchiò le braccia e si alzò. Appoggiò il naso contro la finestra. I sei centimetri di vetro distorcevano le immagini: poteva appena indovinare lo squarcio nel guscio, cinquanta metri sopra di lui. Da lì, sei mesi prima, era evasa l’atmosfera che tanto avevano faticato a creare. Il freddo gli risalì lungo le narici fino al cervello. Rajiv rabbrividì e si scostò. Respirò a fondo l’aria pulita che la bocchetta tonda soffiava discreta. Chissà quanto combustibile fissile rimaneva: il serbatoio del generatore era nel secondo piano sotterraneo, raggiungibile solo dalle scale. Cioè, irraggiungibile. Come il comunicatore a onde lunghe. Come i cadaveri dei suoi concittadini. Ma non si lamentava, anzi, ogni giorno ringraziava Brahama per il suo lavoro di Censore: il suo lavoro era importante, lui non poteva distrarsi quando lavorava quindi sigillava sempre le porte. Il suo lavoro era la sua vita. Ecco perché non era là fuori, a festeggiare il Mezzo Inverno con tutti gli altri. Ecco perché aveva sempre lavorato in quella stanza, nell’ala vecchia del Museo: un posto tranquillo, isolato. E affiancare il magazzino si era rivelata un’altra benedizione: aveva di che sfamarsi per mesi. L’acqua e l’aria, invece, sarebbero finite senza preavviso, un giorno. Ragione di più per terminare in fretta il suo lavoro. Odiava le cose incomplete. Si riscosse, annuì e si spostò davanti alla scrivania: prese il plico, fissò il titolo e arricciò le labbra. «Non sei tu», gli disse. Aprì la libreria e gettò il fascicolo sopra le centinaia di altre storie scartate. Andò nel magazzino, prese un pacco di fogli bianchi e lo pose sulla scrivania. Poi si sedette e aprì i quattro cassetti, uno dopo l’altro. Vuoti. Laggiù! era l’ultimo racconto. Annuì e chiuse gli occhi. Forse, quella era l’unica colonia bombardata. Forse, gli altri gusci del pianeta erano integri. Annuì. Forse, era stato solo un incidente. Forse, un giorno, sarebbero venuti a controllare. Annuì. E lo fece ancora.
Sei ore dopo, aveva finito. Si massaggiò la mano intorpidita, suddivise i fogli in quattro mucchietti e ne infilò uno in ciascun cassetto. «Quanto lavoro, domani», mormorò.
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